Le letture e il Vangelo del 1 gennaio 2021 mi hanno dato modo di riflettere con più attenzione del solito sul 2020 appena passato e sul suo rapporto con il 2021.
Il primo pensiero andava alla preziosità dell’anno nuovo concessoci: il tempo è un grande dono di Dio, è da lui benedetto. Questo diceva la I lettura (Num 6,22-27) che ricordava la benedizione di Dio sul popolo di Israele che si apprestava ad iniziare la lunga e faticosa marcia nel deserto verso una patria di libertà, di dignità e di pace. E’ stupenda la realtà di poter essere sempre accompagnati durante il cammino della vita dal volto rassicurante di Dio: un volto che esprime partecipazione, gioia, sicurezza, incoraggiamento, correzione e accoglienza.
Ancora più importante e rassicurante il contento della II lettura (Gal 4,4-7) che parlava della nostra adozione a figli. Siamo figli di Dio, per cui non siamo solo benedetti e cari a lui per un qualche motivo, ma perché siamo suoi figli. Egli ci ha riscattati, ha pagato il prezzo della nostra schiavitù. Quindi abbiamo un motivo in più per essere fiduciosi di questo tempo e di questa vita che siamo chiamati a vivere, a percorrere, e a capire. Ed è proprio su questo fatto, di approfittare del tempo, sia quello passato sia quello futuro, che la Chiesa poneva al centro della nostra attenzione Maria, la “madre nostra”. Il Vangelo (Lc 2,16-21) richiamava la scena del Natale, e l’annuncio dei pastori a Maria e a Giuseppe “un angelo ci ha detto che nella città di Davide è nato un salvatore che si chiamerà Gesù”. I pastori svelano in qualche modo la personalità, l’identità di Gesù e la sua missione. Maria e Giuseppe sono come frastornati, sbigottiti anche perché il contorno che stanno vivendo sembra dire tutt’altro. Per questo si sottolinea, soprattutto riguardo a Maria, il fatto che lei medita e custodisce quanto le è stato detto nel suo cuore. Lei s’era messa nelle mani di Dio, ora è il Salvatore ad essere affidato alle sue mani. Gesù ha bisogno d’essere custodito materialmente e spiritualmente: da Erode, ma anche dagli interrogativi che agitano il cuore di Maria chiamata a sforzarsi di capire l’identità e la missione del figlio suo.
Tutto questo ha un grande significato anche per noi e proprio per questo la Chiesa, all’inizio dell’anno civile, ci segnala questa dimensione profonda di Maria. Abbiamo anche noi l’attenzione a riflettere sulle vicende che segnano la nostra vita? Questo interrogativo mi ritorna frequentemente in questo passaggio tra il 2020 e il 2021. C’è un passaggio di consegne o c’è solo la voglia di dimenticare tutto?
Di solito quando si porgono gli “auguri”, lo sguardo va al futuro specie se veniamo da un tempo difficile e il 2020 è stato difficile: l’abbiamo provato tutti e tutti abbiamo voglia di lasciarcelo alle spalle e di dimenticarlo. Però sarebbe un guaio dimenticarlo del tutto e non farne tesoro sia in relazione alle esperienze negative, sia per quelle positive. Abbiamo imparato che siamo fragili, che siamo tutti sulla stessa barca, paesi ricchi e paesi poveri, tutti contagiati dalla pandemia, ma abbiamo visto anche tanta dedizione, tanta unità nella ricerca per vincere la malattia, tanti buoni esempi di persone che si dedicavano alla cura dei malati e dei bisognosi in genere. Abbiamo anche capito che dobbiamo cambiare il nostro rapporto con il creato: non più tesi solo a sfruttare il mondo, ma a viverlo in un modo diverso. Abbiamo anche capito che abbiamo bisogno di un’economia e di uno stile di vita più capaci di solidarietà e di fraternità, che di competizione a tutti i costi. È importante che custodiamo dentro di noi queste esperienze, perché il futuro, quello che verrà, ha le sue radici nel passato. Le fondamenta della casa che costruiremo, se avremo voglia di costruirla, sono nel passato. È in quello che abbiamo provato che sono nati progetti, desideri, pensieri nuovi e l’idea della necessità di un cambiamento. La realtà del futuro non si cala dall’alto, ma è nostra. Il futuro va costruito da noi, da quello che abbiamo imparato, dal sapere cogliere le occasioni che verranno per mettere in pratica i progetti, i desideri, le ambizioni, i sogni che abbiamo coltivato.
A questo scopo desidero segnalare un documento della Commissione episcopale per la dottrina, l’annuncio e la catechesi della CEI che s’intitola “E’ risorto il terzo giorno”. Si tratta di una lettura biblico-spirituale della pandemia alla luce del mistero pasquale. Quattro i passaggi da percorrere: il tempo dell’ascolto, il dramma del Venerdì, il silenzio del Sabato e la speranza della Domenica. Il tutto per la maturazione di un’esistenza diversa.
Il tempo dell’ascolto, invita ad un serio esame della realtà in vista, soprattutto, di prendere coscienza delle conseguenze che gravano sul nostro paese all’indomani della pandemia di coronavirus.
Il dramma del Venerdì, esplora il senso di smarrimento, di paura e di abbandono che ha colto un po’ tutti, ma segnala pure quanto di positivo è emerso da una esperienza così tragica.
«In questi mesi di pandemia tutti ci siamo chiesti il senso di un’esperienza così imprevedibile e tragica. «Si fece buio su tutta la terra» (Mt 27,45): è come se quelle tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio del Venerdì, si siano ora dilatate, avvolgendo il nostro mondo con le tenebre della sofferenza e della morte. La pandemia ha rivelato il dolore del mondo: ne ha di certo prodotto e ne produrrà anche in futuro, con conseguenze economiche e sociali vaste e persistenti. Si tratta di sofferenze profonde: come la morte di persone care, soprattutto di anziani, senza la prossimità dell’affetto familiare, il senso di impotenza di medici e infermieri, lo smarrimento delle istituzioni, i dubbi e le crisi di fede, la riduzione o la perdita del lavoro, la limitazione delle relazioni sociali.
La pandemia ha anche risvegliato bruscamente chi pensava di poter dormire sicuro sul letto delle ingiustizie e delle violenze, della fame e della povertà, delle guerre e delle malattie: disastri causati in buona parte da un sistema economico-finanziario fondato sul profitto, che non riesce a integrare la fraternità nelle relazioni sociali e la custodia del creato. Il coronavirus ha dato una scossa alla superficialità e alla spensieratezza e ha denunciato un’altra pandemia, non meno grave, spesso ricordata da papa Francesco: quella dell’indifferenza. L’immagine del mondo, colorato di zone rosse in base alla diffusione del virus, fa pensare all’immagine biblica della terra «rossa», perché bagnata dal sangue del fratello che «grida» a Dio (cf. Gen 4,10).
Sul Calvario c’è però dell’altro. Nei pressi della croce ci sono alcune donne, il discepolo amato, il centurione, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea: poche persone, certo, ma rappresentanti di un resto di umanità capace di «stare in piedi» sotto la croce (cf. Gv 19,25) per tenere compagnia a Gesù, per accompagnarlo alla morte, per garantirgli una sepoltura dignitosa. Quel Venerdì si rivela così un giorno non solo di violenza e morte, ma anche di pietà e condivisione.»
Il silenzio del Sabato, riflette sullo smarrimento succeduto a quel senso di sicurezza che, specie agli abitanti dei paesi più ricchi, dava la sensazione d’essere i padroni di loro stessi
«Il virus ha assestato un colpo fatale al delirio di onnipotenza, allo scientismo autosufficiente, alla tendenza prometeica dell’uomo contemporaneo. Ha creato una profonda inquietudine, quasi un trauma planetario, specialmente nelle zone ricche e industrializzate della terra: uno smarrimento speculare rispetto al senso di sicurezza che diventava facilmente spavalderia. Improvvisamente, anche questa parte di umanità ha dovuto fare i conti con il limite, con la propria consegna nelle mani di altro da sé, con una grossa pietra all’ingresso del sepolcro.
E ci si è resi conto, come ha ricordato papa Francesco, che «siamo sulla stessa barca» (27 marzo 2020): non esistono navi sicure e zattere sfasciate, ma un unico grande traghetto sul quale pochi credevano di potersi riservare scomparti privilegiati. Adesso – si potrebbe dire – «siamo nello stesso sepolcro»: condividiamo paura e morte, ansia e povertà. Tutti, senza distinzione, abbiamo fretta di uscire dal sepolcro. Vorremmo risorgere subito dopo il Golgota. Ma in questa fretta si nasconde una tentazione: quella di considerare la pandemia una brutta parentesi, anziché una prova per crescere; un chronos da far scorrere il più velocemente possibile, anziché un kairos da cogliere e da cui lasciarsi ammaestrare.»
Per molti, questo tempo caratterizzato da un senso di morte e impotenza, non è stato un momento di scuola, ma di fuga insensata verso spiegazioni “teologiche” fuorvianti sull’origine della pandemia, vista come castigo di Dio, o attesa di un miracolo.
«Sostare in pace e con coraggio nel sepolcro non è affatto facile: è però un passaggio necessario verso l’ascolto attento dei fratelli, verso una condivisione profonda delle fragilità, verso il recupero di un silenzio orante, verso un affidamento autentico al Signore. »
La speranza della Domenica. «Gesù risorge solo il terzo giorno, quando ormai la morte sembrava averlo inghiottito per sempre, quando la pietra pareva averlo tumulato definitivamente. Solo il terzo giorno, perché la risurrezione è vera e credibile quando abbraccia la morte e la sepoltura: il corpo di Gesù risorto è pienamente «trasfigurato», perché in precedenza aveva accettato di essere completamente «sfigurato». La sua gloria risplende, perché è passata attraverso una piena solidarietà con gli uomini: ha raccolto tutto l’umano, anche nei suoi risvolti più orribili. »
Guardando alla speranza cristiana, ci si accorge di quanto sia povero il nostro orizzonte riguardo ad essa. Non parliamo molto di immortalità e risurrezione e, per di più, abbiamo rimosso certi temi come la fine e l’oltre e circa la morte usiamo il silenzio o la sua spettacolarizzazione. L’annuncio della speranza cristiana non è una specie di raccolta di verità astratte, ma una vita che prende corpo nel presente per andare poi verso il suo compimento.
Per un cammino creativo. Quest’ultimo punto ci mette innanzitutto in guardia dal pensare di poter tornare dove eravamo rimasti prima e da lì ricominciare tutto da capo. Il tempo vissuto deve diventare la base, le fondamenta, il terreno su cui edificare costruzioni nuove e far nascere germogli di vita nuova.
Fra Roberto Giraldo